“Quella attuale più che una Generazione la definirei una Degenerazione”: sono parole che paiono pronunziate da uno psicologo, un sociologo o una qualsiasi persona chiamata a dare un giudizio sulle nuove generazioni della nostra epoca, ed invece forse sorprenderà scoprire che invece appartengono al celebre scrittore emiliano Giovannino Guareschi, creatore della saga di Don Camillo e Peppone, che così apostrofava i “giovani di ieri” divenuti ora i sessantenni e più di oggi.
Leggendo altre riflessioni guareschiane, nonché scorrendo le righe delle sue opere dedicate al “Mondo Piccolo” del parroco e del sindaco di Brescello, è comune rintracciarvi una notevole “nostalgia” del “mondo perduto” del primissimo dopoguerra con la sua capacità di sognare un domani migliore oltre le macerie del conflitto, da costruire rimboccandosi le maniche e faticando duro, sostenuti tuttavia dagli incrollabili valori di una famiglia solida e della solidarietà di una comunità integerrima. Un mondo oramai irrimediabilmente “corrotto”, “dimenticato” e “sfigurato” da una “gioventù bruciata” che si apprestava ad entrare nel rutilante mondo del boom economico e a diventare una schiera di individui piatti, grigi e privi di iniziativa, speranza e valori.
Essendo figlio di due di questi “ex-giovani degeneri”, da sempre per me figure di autorità, guida, insegnamento (nonché spesso e volentieri rimprovero) trovo difficile non leggere le riflessioni di Guareschi senza nascondere la mia ilarità e sicuramente mio padre, mia madre e molti altri nati agli inizi del boom economico troverebbero molto a che ridire sull’immagine che di loro aveva l’oramai “anziano” Guareschi classe 1908.
Del resto, pur con i loro indubbi difetti, i nostri genitori potrebbero obbiettare di non essere stati affatto “così male” ed anzi di aver contribuito attivamente a continuare la ripresa economica, sociale e culturale dell’Italia del dopoguerra che proprio persone come Guareschi avevano iniziato.
Una ripresa che, inevitabilmente, ha dovuto “piegarsi” alle logiche del consumismo “all’americana”, della cementificazione e della evoluzione dei costumi sociali e culturali, in particolare contribuendo (almeno in apparenza) alla “liberazione” dell’individuo dalle rigide logiche della società comunitarista di stampo agricolo e le donne da secoli di forzata sottomissione e schiavitù alla prigione famigliare.
Una “degenerazione” quindi necessaria all’evoluzione di un mondo le cui isterie collettive avevano portato alla tragedia del secondo conflitto mondiale; responsabilità anche della generazione di cui Guareschi era stato parte.
La generazione guareschiana non era quindi così“perfetta” come l’autore voleva far intendere, né quella dei “figli del Boom” si è rivelata poi essere così“bruciata”.
Eppure sono spesso le persone giunte nell’età della “maturità”, periodo della vita in cui dovrebbe essere chiaro che nulla può essere diviso in nette dicotomie Buono-Cattivo/Bianco-Nero/Eroi-Malvagi/Virtuosi-Degenerati, che peccano della capacità di cogliere le sfumature “grigie” iniziando a categorizzare ciò che circonda loro, edulcorando ed innalzando altari al passato e disprezzando il presente ed il futuro, auto convincendosi ingenuamente di essere parte della “miglior generazione possibile”.
Ormai prossimo alla trentina d’anni, mi rendo conto che i miei coetanei ed io stiamo finendo per compiere lo stesso errore di Guareschi prima e dei nostri genitori poi. Sento spesso parlare con disprezzo degli adolescenti e dei bambini attuali, ritenuti degeneri e privi di ogni regola morale ed umana, abituati ad essere viziati in tutto e ad una vita che li rende apatici e privi di stimoli, dove tutto nelle loro attività ludiche è“semplificato” per adattarsi alle loro minorate capacità di affrontare le difficoltà. Tutte accuse che, riflettendoci bene, la generazione “ex-degenerata” dei nostri genitori ha spesso rivolto anche nei nostri confronti e che ora, egualmente ergendoci a giudici membri di un Concilio di una religione perduta, anche noi muoviamo a chi si affaccia sul mondo dopo di noi.
I giovani di oggi hanno sì i loro difetti, eppure cercando di guardarli in un modo obbiettivo… Dimenticandomi per un momento di essere un “figlio dell’86” ho potuto vedere in loro anche intelligenza, coraggio, speranza e sopratutto tolleranza verso il diverso; verso quelle persone figlie degli immigrati che spesso riteniamo come “invasori” della nostra società monoetnica e che diverranno parte di un nuovo mondo in cui l’identità umana man mano si sostituirà a quelle nazionali e culturali.
Citando Manzoni si potrebbe dire che dovremmo sospendere il nostro giudizio su questi nuovi “giovani degeneri” e lasciare che siano i posteri a dare sul loro operato “l’ardua sentenza”. Dal mio punto di vista, forse anche noi figli del tardo ventesimo secolo dovremmo giudicarci con maggiore umiltà e rammentare che se le nuove generazioni sono davvero la speranza del futuro non possiamo lamentarci che il mondo attuale sia senza prospettive, se siamo noi i primi a non credere in esse.