Quando, nei Mass Media, in rete o nei discorsi per strada si parla della crisi economica è usuale porla a paragone della “Grande Depressione del 1929”; in certi casi persino definendo l’attuale momento di stagnazione persino peggiore di quello che trascinò l’Europa ed il mondo nell’inferno del secondo conflitto mondiale.
Esiste tuttavia un’altra crisi di eguale gravità molto più vicina a noi nel tempo, seppur più lontana nella geografia, dalle stupefacenti somiglianze con il periodo di crisi recessiva attuale scaturito dalla “Bolla Immobiliare” americana del 2008 e che, per molti versi, è ben più adatta ad essere posta come termine di paragone rispetto a quella del ’29. Sto parlando dello scoppio della “Bubble Economy” giapponese di fine anni ’80: quel clamoroso “Crack” finanziario che pose brutalmente fine alla “rampage” economica nipponica del dopoguerra trascinando un paese che pareva destinato a dominare prima l’America e poi il mondo, in ben vent’anni e più di stagnazione recessiva.
Un periodo usualmente ignorato dalla visione “euro-americo-centrica” occidentale ma che può in realtà insegnare a tutte le nazioni molto a riguardo dei pericoli insiti nell’abusare del proprio benessere economico.
Nell’immaginario collettivo, la nazione giapponese è costituita da miriadi e miriadi di operosissime “formichine” il cui unico obbiettivo nella vita è l’autosacrificio assoluto nei confronti dello stato e della collettività. In realtà, chi si fosse recato in Giappone nei primi due decenni del dopoguerra avrebbe assistito ad una scena assai diversa da quella professata in quello stereotipo. La società giapponese del dopoguerra, prostrata dalle immani distruzioni del conflitto mondiale, era difatti in feroce fermento politico e rivoluzionario, culminato in casi eclatanti di scioperi di massa per far sgombrare i quali le autorità furono persino costrette a chiamare in aiuto le forze di occupazione statunitensi; intenzionate anch’esse a soffocare il più rapidamente possibile quello che pareva essere la radice di un nuovo “Pericolo Rosso” nel territorio dell’ex-nemico ed ora alleato nipponico.
Il Governo giapponese comprese che per mantenere la “coesione sociale” era necessario scendere ad un compromesso: in cambio della fine delle tensioni e delle rivendicazioni politiche la popolazione si sarebbe impegnata a rendere la nazione una superpotenza economica, ottenendone poi benefici dal punto di vista dell’aumento salariale e del tenore di vita. I giapponesi così si sacrificarono sì ad una logica “superiore”, ma sotto la promessa di qualcosa di molto sostanzioso in cambio…. “l’American Dream” divenuto “Nippon Yume”.
L’assenza di spese militari dovuto al divieto di riarmare un esercito presente nella Costituzione Post-Bellica, le politiche dello stato volte a favorire il più possibile lo sviluppo del “Made in Japan” (all’epoca di qualità pari al “Made in China”) e la spinta produttiva delle industrie giapponesi dovute agli sforzi di assistenza logistica all’alleato americano impegnato nei conflitti in Corea prima e Vietnam poi parvero rendere finalmente possibile il sogno del “Paese Ricco” nutrito dai governanti e dalla popolazione. A livello aziendale e produttivo, nacquero cisì quegli agglomerati che sarebbero divenuti il cuore della “riscossa” economica giapponese: i “Keiretsu”, sorta di “alleanze” fra istituti bancari, grandi industrie, piccole aziende e governo giapponese. Le banche concedevano notevoli iniezioni di credito alle corporazioni, le quali a loro volta potevano contare su politiche estremamente vantaggiose da parte del governo (comprate spesse a suon di mazzette sottobanco), mentre le piccole aziende venivano man mano assorbite dalle grandi “Keiretsu” ed i loro sforzi convogliati nel sostenere la produzione delle industrie più grandi.
Le crisi petrolifere degli anni ’70 parvero sul punto di bloccare l’ascesa di quella che sarebbe stata definita la “Japan Inc”, ma radicali e lungimiranti politiche governative ed aziendali riuscirono ad ottenere vantaggio dalla situazione. Mentre le industrie europee e soprattutto statunitensi caracollavano a causa della scarsità di risorse petrolifere, i corrispettivi nipponici sacrificavano i settori a più alto consumo di greggio (cantieristica, petrolchimici ecc.) per riconvertire la propria produzione verso nuove produzioni maggiormente “Energy Saving” e proficue come l’elettronica o l’industria dell’automobile che fece della capacità di far fare alle proprie auto più chilometri con molto meno carburante rispetto ai serbatoi “spropositati” delle controparti statunitensi il suo punto di forza.E’ in questo periodo che si assistette all’ascesa di marchi oggi celeberrimi nel mondo come Sony, Panasonic, Toyota, Nintendo ecc.
Il PIL giapponese grazie alle ingenti esportazioni schizzò alle stelle ed in numerosi ambiti i consumatori occidentali iniziarono a preferire i prodotti giapponesi a scapito di quelli “nativi”, poiché ritenuti maggiormente economici e vantaggiosi. Il predominio dei prodotti giapponesi sul mercato interno portò non poche preoccupazioni al mondo economico e politico statunitense che nel 1985 decise, in accordo con altre economie minacciate dall’eccessivo deprezzamento dello Yen e del Marco tedesco nei confronti del dollaro, di siglare al Plaza Hotel di New York un accordo volto ad aumentare il valore delle monete nipponiche e tedesche nei confronti del dollaro, limitando così “l’invasione” dell’export giapponese sui mercati occidentali.
Il successivo apprezzamento dello Yen nei confronti del dollaro che consentì un po’ di respiro all’economia americana, provata dalla recessione economica dell’era Reaganiana, causò tuttavia un inaspettato effetto collaterale: il grande valore dello Yen nei confronti del dollaro consentì alle aziende ed alle corporazioni nipponiche di lanciarsi in una campagna di investimenti ed acquisti di proprietà all’estero, culminate nelle eclatanti acquisizioni da parte di Mitsubishi del complesso del Rockfeller Center o della Columbia Pictures da parte del colosso elettronico Sony. Eventi che, come rintracciabile nella cultura popolare statunitense del periodo, innescarono nel popolo americano il terrore di un nuovo “Pericolo Giallo” di Jack Londoniana memoria, dove l’ex-nemico asiatico sconfitto sarebbe divenuto il nuovo padrone della “libera” America.
La “campagna acquisti esteri” giapponese era tuttavia solo un aspetto di quel periodo di esasperazione ed autoesaltazione economica e sociale che investì la società dell’arcipelago a tutti i livelli, da quello delle megacorporazioni Keiretsu a quello del semplice cittadino consumatore. Forte di una ingente liquidità dovuta alla politica di risparmio delle famiglie del dopoguerra e dell’apprezzamento della moneta all’estero, le banche giapponesi iniziarono a concedere grandi prestiti ad aziende e privati a tassi di interesse minimi, prendendo spesso come garanzia terreni il cui valore, in una nazione montuosa come il Giappone, aumentò a livelli stratosferici. Verso la fine degli anni ’80 venne calcolato che il solo terreno al di sotto del Palazzo Imperiale nel centro di Tokyo, se venduto, avrebbe avuto un valore pari a quello dell’intera superficie dello stato della California. La facile liquidità ottenuta dalle banche venne reinvestita dal mondo dell’industria, della finanza o persino da semplici contribuenti in azioni il cui valore durante tutto il decennio salì vertiginosamente a livelli raramente visti sulla scena economica mondiale. Tutto ciò ebbe un effetto galvanizzante sull’intera nazione, convinta di essersi risollevata dalle macerie della guerra per entrare in una nuova “Età dell’Oro” ove ogni eccesso consumistico era possibile e concesso. Managers che sorseggiavano tè alla polvere d’oro, che spendevano caterve di denaro in lussuosissimi parties notturni o che “svaligiavano” le case d’asta di mezzo mondo di costosissime e rarissime opere d’arte divennero gli esempi più eclatanti della mentalità della “Bubble Economy”.
Ma come tutte le bolle, anch’essa si rivelò alla fin fine assai fragile e lo “spillo” che ne causò lo scoppio fu lo stesso governo giapponese che preoccupato dall’eccessivo apprezzamento del mercato azionario sostenuto dalla “cornucopia” bancaria, decise di alzare improvvisamente i tassi di interesse dei prestiti bloccando così di colpo il motore dell’economia della Bolla e guastandolo irrimediabilmente.
Con lo scoppio della Bolla il Giappone si ritrovò improvvisamente dall’alto degli empirei alle profondità infernali di una recessione economica senza pari nella storia della nazione. Disoccupazione rampante, suicidi per disperazione ed indebitamento, crisi dell’identità nazionale e sociale, malessere giovanile, scandali per corruzione e persino eventi catastrofici come il terremoto di Kobe del 1995 o l’attentato col Sarin nella metrò di Tokyo da parte della setta Aum Shinrikyo; il tutto condito da una classe politica imbelle e passiva contribuirono a prostrare il morale del paese e dei suoi abitanti convinti oramai di essere condannati ad una spirale di degenerazione economica, morale, antropologica e spirituale.
Soltanto quest’anno, dopo il “sorpasso” dell’economia cinese e quasi vent’anni di recessione il Giappone pare pian piano rimboccare la strada di una “crescita” che non sia più mera sopravvivenza.
“Ad una pagliuzza d’oro sarà dato grande valore, ma se finisce in un occhio il risultato saranno le tenebre”: forse nulla meglio di questa frase citata spesso da un signore feudale del Giappone del sedicesimo secolo, incarnebbe meglio la morale della “Bolla” in cui il Giappone del penultimo decennio del ventesimo secolo si trovò intrappolato. Un insegnamento che deve far riflettere anche qualsiasi altra economia mondiale ora nella morsa della crisi, crisi che ancor prima di essere economica, potrebbe essere definita crisi di certezze di cui per troppo tempo si è abusato.
Ma forse, più prosaicamente, potremmo riassumere la “Bubble Economy” giapponese e mondiale con due detti più “vulgari”, ma sicuramente non meno veritieri: “Tutto ciò che va su, deve tornare giù” e “Più sono grossi, più fanno rumore quando cadono”.