Ieri ho letto quasi per caso l’intervista a firma di Siana Vanella, pubblicata il 4 febbraio scorso su Panorama, a Lucia Riina figlia del boss mafioso Totò Riina considerato uno dei capi, se non il capo della mafia e condannato tra l’altro a diversi ergastoli per aver commesso ed essere stato il mandante di diversi omicidi.
Non sono un giornalista e quindi lungi da me voler dare lezioni di deontologia professionale a chicchessia ma leggendo l’intervista ho sentito la necessità da cittadino di scrivervi.
Premetto che non scrivo dal Sud ma dall’Emilia dove vivo; qui non sentiamo la puzza della mafia, ma sappiamo della sua presenza nelle nostre terre, una presenza che è solo meno evidente, meno rumorosa ma più strisciante e, proprio per questo, altrettanto pericolosa.
Sia chiaro che non trovo scandaloso intervistare Lucia Riina in quanto figlia di un boss mafioso perché di questo certamente non è colpevole, e sia altrettanto chiaro che non trovo illegittimo l’amore di una figlia verso il proprio padre, fosse anche quel padre la persona peggiore di questa terra.
Quello che ho trovato invece inaccettabile sono le domande che non avete posto a quella donna, le domande che qualsiasi giornalista avrebbe avuto il dovere di fare.
Perché se è legittimo intervistare chiunque non si può ignorare la storia che c’è dietro quel nome e ancor meno si può ignorare quel legame che è poi il motivo dell’intervista. Non si possono ignorare tutti i morti ammazzati, gli innocenti, i bambini e tutte le vite rovinate da chi ha scelto la futilità di un potere senza senso ad una vita dignitosa. Per che cosa poi? Per finire soli in una cella, rinchiusi per tutta la propria vita come delle bestie in una gabbia.
Non si può tirar fuori certe storie tralasciando come se nulla fosse ciò che esse hanno rappresentato e rappresentano per l’Italia e in particolare per tutte le vittime di quell’atroce sistema.
Sarebbe stato bello chiedere a quella figlia cosa pensa oggi, al di là dei sentimenti (che ribadisco sono legittimi), del fatto che quell’uomo, quel padre amorevole che gli trasmetteva “la gioia di vivere e l’ottimismo” mentre giocava con lei, mentre pregava con lei per i propri cari, commetteva e faceva commettere tante atrocità.
Un tempo passato e lontano potrebbe dire qualcuno… Ma le madri che hanno perso i propri figli ancora piangono. E piangono le terre inquinate dalla criminalità organizzata in cui la gente ancora oggi muore avvelenata. E piangono quei figli che si vedettero strappare i propri padri ammazzati come cani su una strada. E dove non ci sono più lacrime è restato l’odio e il dolore… Può davvero un giornalista e un giornale serio come Panorama ignorare tutto questo anche se solo per un’intervista?
Sarebbe stato giusto chiedere a quella donna come può non provare pietà e compassione per quelle vittime che si sono viste strappare ciò che lei ha invece avuto? Sarebbe stato giusto chidergli come convive col fatto che mentre lei ha ancora la possibilità di dire a quel padre che gli vuole bene guardandolo negli occhi ci sono invece centinaia di persone che per esprimere il loro amore ai propri cari devono inginocchiarsi su una tomba separati da chi hanno amato da tre metri di terra e da un intero Cielo?
Perché al di là di tutto se Lucia Riina non è colpevole di quei crimini il solo fatto di non condannarli con tutta la durezza necessaria la rende complice di quell’odio, di quelle lacrime, di quel dolore.
Perché al di là di tutto se siete giornalisti, così come non potrete mai ricevere tutte le risposte che volete, avrete sempre il dovere di fare le domande in modo tale che nessuno possa accusarvi di aver ignorato cose così tragicamente importanti. E in questo caso, dispiace dirlo, avete raccontato un mare scordando di dire che quell’acqua è salata e che quella tempesta non è mai passata.
Nicola Pozzati