Ripensando a tutte le atrocità che sono state commesse dal nazismo durante la seconda guerra mondiale, è logico ed importante chiedersi il motivo per cui tutto ciò sia accaduto. Sicuramente questo libro dà una risposta più che soddisfacente a questa domanda, punto di partenza per non commettere mai più ciò che è stato definito dall’intera umanità come terribile.
Hannah Arendt, di origini ebraiche, è stata una filosofa e scrittrice tedesca. Come inviata del settimanale “New Yorker”, partecipò al processo Eichmann, contro il criminale nazista Otto Adolf Eichmann, che doveva rispondere di quindici imputazioni per crimini di guerra contro il popolo ebraico e contro l’umanità.
Eichmann non ricoprì mai gradi eccessivamente alti, ma si rese fondamentale per la sua determinazione ed importanza nel coordinamento dei trasferimenti degli ebrei nei campi di concentramento e di sterminio.
La tesi del libro tratta le dinamiche per cui persone pressoché normali possano arrivare a commettere azioni così mostruose, ed è esplicata in modo chiaro quando afferma: “[…] il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica […] che questo nuovo tipo di criminale […] commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.
Senza voler essere un atto di giustifica dei responsabili dell’olocausto, il libro esprime in modo straordinario come sia stato possibile che solo pochissime persone fossero riuscite a non farsi coinvolgere e trasportare dal regime, tra l’altro fatto assolutamente attuale, dato che nel mondo anche oggi diversi stati sono ancora sotto dittatura. Secondo la scrittrice il problema più grande è evidentemente il relativismo, ovvero l’incapacità, o forse la scelta, di non sviluppare un pensiero critico seguendo un’etica personale e meditata, per omologarsi ad una coscienza morale dettata dalla società o, in questo caso, dalla legge di Hitler.
È stato proprio l’adattamento acritico alle “leggi” sociali che ha permesso ad Eichmann di svolgere il suo “lavoro” con sconcertante zelo, mandando a morire più ebrei possibile, ripetendosi continuamente che in fondo stava solo facendo il suo dovere per il bene della società e secondo la legge (ogni parola di Hitler era da considerarsi legge), e che se non l’avesse fatto lui l’avrebbero sicuramente fatto altri.
Da notare che questa assenza di criticità e di consapevolezza nei confronti delle azioni commesse è attuale e si può intravedere in tante situazioni di discordanze etiche nella società. Anche oggi, per diverse situazioni e norme tuttora vigenti, ci si potrebbe chiedere: se la legge lo permette, si può uccidere un proprio simile o contribuire alla sua morte, senza provare alcun senso di colpa? Inconsapevolmente lo si sta già facendo?
Allora, secondo questa innovativa spiegazione fornita dalla filosofa, ciò che permette la diffusione di questo male “banale” non sono tanto gli uomini malvagi, ma la sempre maggiore incapacità della società di sviluppare un pensiero critico ed una morale propria, indifferentemente dalle mode e dalle correnti politiche. In questo modo la società può essere plasmata e condotta dai media in modo assolutamente semplice e sconvolgente, privando i suoi membri di qualsiasi tipo di giudizio. E’ a questo proposito importante citare una frase molto significativa di Hannah Arendt, che ci ricorda come “[…] il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più”.
Per concludere, credo sia provocatoria la frase citata nel libro: “ […] l’unica prova concreta del fatto che i nazisti non avevano la coscienza a posto era che negli ultimi mesi di guerra essi si erano dati da fare per distruggere ogni traccia dei crimini, soprattutto di quelli commessi dalle organizzazioni a cui apparteneva anche Eichmann. E questa prova […] dimostrava soltanto che i nazisti sapevano che la legge dello sterminio […] non era ancora accettata da tutte le nazioni; ovvero, per usare il loro stesso linguaggio, sapevano di aver perduto la battaglia per liberare l’umanità dal dominio degli esseri inferiori […]. In parole povere, dimostrava che essi riconoscevano di essere sconfitti. Se avessero vinto, qualcuno di loro si sarebbe sentito colpevole?”.
Titolo: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
Autore: Hannah Arendt
Anno: 1963
Genere: saggio
Casa editrice: collana Universale economica. Saggi, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 320, ISBN 978-8807883224
1 Comment
Molto bella la tua recensione.
Mi piace molto la parte in cui si parla di incapacità di sviluppare un pensiero critico ed una propria morale. Se mi permettete questo è ciò che, purtroppo, succede tutt’ora. Viviamo in una società in cui ci fa più comodo pensare e agire secondo la massa piuttosto che metterci in gioco con il nostro pensiero.
Annamaria