Di recente Russel Wilson, quarterback dei Seattle Seahawks, ha mandato una lettera al The Players’ Tribune nella quale dichiarava di essere entrato a far parte della Sonics Arena Group, una cordata di investitori capitanata dal magnate della finanza Chris Hansen che da tempo si muove per costruire un nuovo palazzetto, la “Sodo Arena”. Lo scopo è solo uno. Riportare i Sonics a Seattle, riportare i Sonics a casa.
Un buon motivo per cui potrei ammettere di invidiarvi, e nemmeno poco, è se mi diceste di essere nati tra gli anni 70’ e 80’ a Seattle, Washington, estremo nordovest degli Stati Uniti. Attenzione, Washington lo stato, non Washington D.C. Meglio essere puntigliosi se ripensiamo che Shawn Kemp, appena arrivato a Seattle dalla Concord High School esclamò ai suoi dirigenti “Fatemi vedere questa benedetta Casa Bianca!” Ecco, Shawn Kemp si che è stato fortunato, ma forse non se ne è nemmeno reso conto, perché ha stabilito la sua residenza in un luogo che negli anni 90’ si consacrava come centro nevralgico di produzione artistica e culturale, una città che viveva di musica, di letteratura, di libertà. Se negli anni 90’ aveste voluto ascoltare della ottima musica dal vivo sareste dovuti andare al The Central, il saloon più antico di Seattle, nato addirittura nel 1892. Abbiamo detto ottima musica, ma spesso e volentieri a Seattle quando si parla di musica si travalica il confine del leggendario. Già, perché Seattle ha partorito niente meno che Jimi Hendrix, consacrato da “The Rolling Stone” come il più grande chitarrista di tutti i tempi. Ma non si esaurisce qui la produzione musicale della città dello smeraldo, una madre che ha la piacevole abitudine di sfornare le più grandi leggende del panorama musicale mondiale. Mudhoney, Foo Fighters, Soundgarden e in tempi più recenti Macklemore sono solo pochi dei prodotti della capitale dello stato di Washington. Ma la città di Seattle è diventata sede di culto per uno dei generi che a metà degli anni 80’ ha trovato proprio qui gloria grazie ai suoi esponenti più celebri, il Grunge. Per risalire alla sua origine dobbiamo tornare indietro fino all’ottobre del 90’, quando in un locale chiamato OffRamb suonano i Mookie Blaylock, poi passati alla storia come Pearl Jam. Di li a poco i Pearl Jam troveranno, su consiglio dei Red Hot Chili Peppers, il loro frontman, un benzinaio di Chicago chiamato Eddie Vedder. Un mese dopo il locale ospita un’altra band di Seattle, i Nirvana di quel Kurt Cobain che di li a cinque anni si spegnerà tragicamente. La sensazione a Seattle è di vivere in un contesto musicale paragonabile a quello di Liverpool.
Ma Seattle non è solo musica. Seattle è un centro di produzione che accoglie tutt’ora alcune delle più quotate multinazionali mondiali. Se ora state leggendo questo articolo sul vostro computer parte del merito va a Seattle, dove nel 1976 Paul Allen e Bill Gates stabilirono la sede della Microsoft. Se oggi avete la possibilità di ordinare un articolo su un sito e vedervelo recapitare comodamente a casa in pochi giorni, se non il giorno successivo, è perché nel 1994 qui venne fondata Amazon, il colosso del commercio elettronico. Se mai durante uno dei vostri viaggi avete bevuto un caffè da Starbucks molto del merito è di Howard Schultz, che nel 1982 diventa responsabile marketing dell’azienda. Nel 1987 con circa 3,8 milioni di dollari rileva tutti e sei gli Starbucks di Seattle, destinati a diventare 3501 nel 2000. Ecco, qui si ricollega il filo rosso tra le prosperose attività della città e il basket, perché nel 2001 Schultz rileva i Seattle Supersonics, squadra NBA della città. Qui comincia il nostro flashback.
La storia d’amore tra Seattle e i Sonics comincia nel lontano 1967, anno in cui venne fondata la squadra poi ribattezzata Supersonics per ossequiare un altro grande vanto industriale della città, l’azienda di trasporti aerei Boeing, che assorbe una fetta più che consistente della manodopera si Seattle, e in omaggio alla tendenziale spinta verticale del simbolo più iconico di Seattle, lo Space Needle, la futuristica torre inaugurata in occasione dell’Expo del 1962 che spesso è comparsa in serie tv e film, tra i più noti Grey’s Anatomy e Men in Black. Qualche anno dopo, tenete a memoria, lo ritroveremo sul parquet della KeyArena, come mascotte dei Sonics.
La prima grande epopea dei Sonics risale alla fine degli anni 70’, quando raggiungono per due anni di fila la finale coi Washington Bullets, prima persa nel 1978 e poi vendicata nel 1979. Ma la consolidazione della franchigia risale alla seconda di epopea, metà anni 90’, dopo che nell’89’ il draft ha portato nello stato di Washington il già citato Shawn Kemp (sebbene, come detto, non ne fosse subito tanto consapevole), e nel 90’ la guardia Gary Payton. Con il successivo arrivo di Coach Karl nel 92’ i Sonics risorgono e crescono anno dopo anno affermandosi sempre più come superpotenza NBA. Payton e Kemp, agli antipodi e complementari tra loro, un duo decisivo e straripante, ai vertici della classifica NBA e degli highlights settimanali, porteranno la città dello smeraldo alla sua terza finale NBA arrendendosi solo di fronte ai Chicago Bulls firmati Jordan post rientro dal baseball, lo stesso Jordan che verrà eletto MVP delle finali. Ma la celebrazione di Jordan non sarà unanime. Per molti, moltissimi, il vero MVP delle finali è stato il ragazzo da Concorde Highschool, Shawn Kemp, che solo per una burla di madre natura non è diventato uno dei più grandi di sempre. Era stato dotato di una struttura fisica micidiale, un atletismo ghepardesco e tecnica sopraffina, ma col sale in zucca la natura era stata piuttosto avara, e senza il sale in zucca non si diventa il migliore. Gli aneddoti sul ragazzone dell’Indiana di sprecano. Da ragazzino in un torneo giovanile pare abbia crudelmente schiacciato senza pietà alcuna sulla testa di un piccolo ragazzo bianco che con la palla a spicchi non ci sapeva fare poi tanto, tale Leonardo di Caprio, che per sua fortuna e per fortuna nostra è stato provvisto di ben altro talento. Oppure la leggenda che vuole che Kemp sia riuscito nella strampalata impresa di diventare padre di sette figli nati da sei donne diverse, forse l’unico record detenuto in carriera. O magari vale la pena di ricordare un improbabile tentativo di rientro a cinque anni dal ritiro, ma non in patria, bensì nel nostrano entroterra marchigiano, Montegranaro per l’esattezza. Provino non proprio brillante, si fanno le valigie e si torna dall’altra parte dell’oceano.
Tuttavia la grande epica gialloverde è destinata ad esaurirsi. Negli anni 2000, in cui le poche scelte felici sono state firmare Ray Allen e draftare Kevin Durant, la squadra sbanda sotto la gestione di Howard Schulz, che nel 2006 vende la squadra ad un gruppo di investimenti guidato dall’imprenditore dell’Oklahoma Clayton Bennet, che per ammansire l’inferocita tifoseria dei Sonics promette di mantenere Seattle come dimora dei supersonici. Se all’inizio lo spostamento della franchigia nelle grandi praterie dell’Oklahoma sembrava solo una speculazione, nel 2007 diventa una triste realtà per gli abitanti di Seattle. Clayton Bennet fa su baracca e burattini e trasferisce la franchigia ad Oklahoma City, tutt’altro scenario rispetto alla Rain City.
Dal 2012 in poi sono state diversi tentativi di riportare i Sonics alla casa base, purtroppo tutti tristemente naufragati. Ma la speranza è l’ultima a morire, l’NBA è abitata nelle sue pieghe più nascoste da nativi della città che da qualche parte sui loro corpaccioni hanno tatuate tre sole cifre, 206, il prefisso telefonico di Seattle, e che sono pronti in qualsiasi momento e incondizionatamente a riportare i loro servigi all’ombra dello Space Needle… perché non sempre, e Seattle lo dimostra, la lontananza cancella una grande storia d’amore.