Già dalla scorsa estate, nella baia californiana che ospita Los Angeles si cominciava a parlare, non più tanto sommessamente, di necessità o volontà di rebuilding, ovvero di ricostruzione, in ambo le sponde cestistiche losangeline. Il processo di ricostruzione\tanking dei gialloviola era già abbondantemente avviato, soprattutto dopo il ritiro di Kobe che ha liberato abbondanti milioni spendibili per riportare a livello il salary cap e per riportare i Lakers almeno in posizioni dignitose che più si addicono al suo blasone e alla sua prestigiosa storia. Al contrario nel quartier generale dei Clippers si cominciava appena a mettere in discussione il progetto tecnico su cui aveva poggiato la crescita della squadra guidata da Doc Rivers. Dal 2011, anno di approdo di Chris Paul a Los Angeles, era stata subito evidente la strategia dei Clippers per consolidarsi se non come contender, almeno come potenza NBA. Il roster era costruito sul già citato Chris Paul, motore e cervello della squadra, su DeAndre Jordan, muscolare centro di Houston specializzato in difesa e voli sopra il ferro e su Blake Griffin, che nel 2010 si guadagnò il premio di Rookie of the Year. Dal 2011 in poi la squadra aveva ovviamente subito molteplici modifiche, come sempre accade in NBA, ma il terzetto di base era rimasto una costante indiscutibile su cui costruire un’intera squadra che andasse ad integrarne le virtù e a colmarne le lacune.
Già dalla stagione 2011\12 i Clippers si sono affermati nel panorama NBA non solo come temibile avversaria, ma persino come credibile contender. Nonostante le convincenti prestazioni di regular season prima e playoff poi, i Clippers in semifinale di Conference devono arrendersi ai troppo dominanti Spurs che spazzano via i californiani in quattro partite. Da quella stagione in poi tuttavia, i Clippers cominciarono sempre di più ad espandere le loro mire e le loro ambizioni, senza paura di presentarsi ogni anno come “borderline-contender“, ovvero come contender di confine, non tanto preparata da essere la principale favorita, ma sufficientemente attrezzata da poter ambire all’anello. Nonostante la decisiva svolta data alla mediocre storia della franchigia, nonostante molteplici accorgimenti e modifiche nel corso degli anni, i Clippers non sono mai riusciti a fare l’ulteriore e decisivo passo per abbandonare quella che ormai sembrava essere la definitiva etichetta di borderline-contender. Così i losangelini comiciano ad essere bollati come inconcludenti, arrendevoli, destinati a soccombere alle prime avversità, inevitabilmente condannati a piegarsi di fronte alle dominanti franchigie della Western Conference.
Nella passata stagione i Clippers riescono come loro solito ad affermarsi come seconda potenza della Pacific Division, alle spalle degli insormontabili Warriors, ma il cammino ai playoff ancora una volta è destinato a terminare anticipatamente, così la squadra allenata da Doc Rivers esce di scena al primo turno dopo aver subito un 4-2 nella serie coi Trailblazers. Nonostante il solito anticipato abbandono dei playoff i Clippers avevano condotto la consueta buona stagione, conclusa con il sesto miglior record della Lega (53-29) un offensive rating di 106.5 (ancora sesto miglior off. rating della NBA) e un defensive rating di 100.9 (quarto migliore della NBA). Per l’ennesimo anno quindi sono destinati a chiudere un più che ottimo percorso in regular season con la breve corsa ai playoff.
A fronte dei medesimi risultati di sempre che infangano i Clippers nel ruolo di borderline-contender (stavolta davvero molto borderline) la dirigenza effettua i consueti aggiustamenti di rito prima dell’inizio della stagione, ma stavolta con sguardo diverso volto ad analizzare le successive 82 partite e i prossimi playoff. La sensazione è che per la prima volta dal 2011 la franchigia non consideri più indiscutibile il progetto incentrato su Paul, Griffin e Jordan con Redick quarta forza della squadra. La sensazione è che la dirigenza stia sottoponendo la squadra ad una prova del nove che se venisse fallita porterebbe il roster ad uno stravolgimento totale e alla cessione dei pezzi pregiati dei Clippers per ripartire con un nuovo progetto tecnico.
Alla vigilia delle corrente stagione i Clippers si presentano ai nastri di partenza sia con i soliti punti forti di sempre che con i soliti interrogativi. Dopo l’infortunio e le bizze dell’anno scorso tornava bramoso di riscatto Blake Griffin, in costante crescita tecnica negli ultimi anni, capace di aggiungere un ampio numero di skills alla sua faretra di alternative in attacco per modernizzarsi e adeguarsi alla deriva sempre più tecnica che stanno assumendo i lunghi in NBA. Anche in questa stagione Griffin era chiamato ad evolversi ulteriormente, migliorando la difesa di squadra e ampliando il suo range di tiro. Recentemente, in occasione del ritiro della maglia di Tim Duncan a San Antonio, Tony Parker aveva identificato, nel suo discorso celebrativo per l’ormai ex compagno, cinque categorie gerarchiche in cui si possono suddividere i giocatori di basket di un certo rilievo. Role players, stars, all stars, superstars, superstar plus plus. Ecco, Griffin non può esimersi dal tentare il decisivo balzo da All Star a Superstar, che si tratti di limare le mancanze del suo gioco o giungere ad una completa maturazione fuori dal campo.
La vera testa di serie però, il vero “go to guy“, non può che essere ancora una volta Chris Paul, detentore supremo delle chiavi del gioco dei Clippers, che trova compimento in una squadra costruita appositamente per esaltare oltre ogni misura le sue peculiarità tecniche di grande passatore, grande gestore dei possessi della sua squadra e leader. Ma proprio qui si annidano impercettibilmente i dubbi della dirigenza dei Clippers. CP3 era approdato a Los Angeles come cavallo di razza da cavalcare per puntare dritto ad un anello NBA, ma dopo cinque stagioni passate in maglia bianca non è ancora riuscito a regalare nemmeno una finale alla sua franchigia. Non che la colpa sia del numero 3, sia chiaro, ma paradossalemente il front office dei Clippers, nonostante sia ben conscio di avere tra le mani il miglior playmaker “puro” (se è lecito usare tale termine) della Lega, comincia inevitabilmente anche a dubitare che il suo connubio con Griffin, Jordan e Redick (merita di essere menzionato) possa portare agli obiettivi tanto ambiti.
Al momento i Clippers sono terzi nella Western Conference, a contatto con gli Spurs appena battuti nella scorsa nottata e in linea di galleggiamento con i strafavoriti Warriors. Proprio nella partita con i texani i Clippers hanno dimostrato grande tenuta mentale rifilando a San Antonio la seconda sconfitta della stagione in trasferta per 106 a 101, tirando con un ottimo 46,4% dal campo e il 39,3% dall’arco e portandosi ad un 21-8 che al momento li mantiene in scia a San Antonio e Warriors nonostante il recente infortunio di Blake Griffin, sottoposto martedì ad un intervento di pulizia al ginocchio.
Ora i Clippers sono 11-4 sia in casa che in trasferta, sembrano ad una stagione di svolta sul piano del gioco e dei risultati e mirano ad un cammino costante in regular season per poter puntare ad un entusiasmante percorso ai playoff, che significherebbe una definitiva maturazione della squadra e convincerebbe il front office a scommettere anche la prossima stagione sul trio Paul-Griffin-Jordan e sui vari Redick, Crawford e compagnia. Se i Clippers proseguiranno nella loro soprendente annata o si scioglieranno come neve al sole alle prime avversità ce lo dirà solo il tempo, ma al momento sembrano aver già compiuto un decisivo passo in avanti, che gli ha consentito di vincere una partita complessa contro gli Spurs senza il fondamentale apporto di Griffin e di portarsi nelle posizioni di vertice non solo della conference ma dell’intera lega.