Cosa c’è di rilevabile in quegli uomini e in quelle donne che hanno dato lustro alla razza umana, o per lo meno alla materia di loro competenza, con lampi di straordinaria genialità e visioni che hanno tracciato solchi indelebili nella storia dell’uomo? Cosa si nasconde dietro alla genialità di tanto grande e radicato da enfatizzarla ed applicarla oltre ogni immaginazione? Cosa accomuna le persone geniali di ogni epoca ed ogni disciplina ed è il motore che permette alla genialità di sprigionarsi? Semplicemente un’ossessione. Da sempre dietro alla genialità si cela una componente ossessiva, una spasmodica ricerca della perfezione, una delirante sete di conoscenza che porta alla liberazione ed alla applicazione del dono che si ha a disposizione ma ad un elevatissimo costo, perchè se l’ossessione infiamma il genio allo stesso modo imprigiona l’anima, facendo perdere lentamente ma costantemente il contatto con la realtà.
Il mondo dello sport ovviamente non si esime da questa regola, anzi. Spesso è stato proprio nello sport che hanno brillato le menti più geniali e più affette da immani ossessioni. Per citare il compianto Vujadin Boskov: “un grande giocatore vede autostrade dove gli altri vedono solo sentieri”, ma il dono della visione ha un prezzo salatissimo da pagare ed inevitabilmente porta il genio ad estraniarsi dall’ambiente, anche affettivo, in cui è immerso. La storia è costellata di grandi atleti che hanno fatto dell’ossessione un mantra destinato a segnare le loro intere carriere. Primo su tutti Kobe Bryant, autocondannatosi ad un’eterna comparazione con Michael Jordan, modello cui ambire ma anche limite da valicare. Oppure Larry Bird, che ogni mattina per prima cosa controllava il boxscore per guardare le statistiche tenute dall’eterno rivale Magic Johnson la sera precedente, o Cristiano Ronaldo, che anche se tornato da una trasferta a notte fonda condannava il suo fisico a bagni gelidi affinchè i suoi muscoli già il giorno dopo fossero corroborati e pronti ad altre ed infinite torture.
Esiste un caso, nel mondo dello sport, forse non unico ma sicuramente uno dei pochi, in cui nella stessa famiglia la provvidenza, 0 chi per lei, ha distribuito la componente geniale al figlio e la componente ossessiva la padre. E’ il caso della famiglia Agassi, in cui l’ossessione si era impadronata di Emanoul Agassi, padre del ben più noto Andre, condannato durante l’infanzia alla spropositata ambizione e terrificante despotismo del padre. Iraniano di origine armena, Emanoul Agassi nacque a Theran nel periodo della guerra in Iran, condannato alla povertà più assoluta ed alla convivenza con le truppe americane che avevano l’abitudine di passare il tempo libero in un parco vicino giocando a tennis, col piccolo Emanoul come raccattapalle e custode dei campi. In un contesto cosi tragico quei due campi da tennis hanno rappresentato per il bambino un’occasione per estraniarsi dalla terribile esperienza della guerra, generando un’amore profondo per questo sport, poi tramutato in ossessione. Così una volta trasferitosi a Las Vegas, per lavorare negli immensi casinò della città, l’ossessione si è riversata inevitabilmente sui suoi quattro figli, in particolar modo sul più piccolo, Andre Kirk, quello che più di tutti aveva il talento necessario per toccare il cielo con un dito e che più di tutti è stato sottoposto ai massacranti allenamenti del diabolico padre.
“Papà dice che se colpisco 2500 palle al giorno, ne colpirò 17500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile.”
Le parole sopra riportate sono un estratto di Open, la rivoluzionaria biografia di Andre Agassi che descrive gli interminabili allenamenti preparati dal tirannico padre col solo scopo di rendere un giorno Andre il numero uno del mondo. 2500 palle al giorno, 17500 al mese, quasi un milione all’anno e tutte sputate dal “drago”, una macchina lanciapalle modificata da Emanoul Agassi ma che al piccolo Andre sembra un mostro nero e spaventoso.
“Colpisci prima, grida mio padre. Accidenti, Andre, colpisci prima. Stai addosso alla palla, stai addosso alla palla (…) Più topspin! Colpisci più forte. Colpisci più forte. Non in rete! Maledizione Andre! Mai in rete!”
Queste sono le parole che Andre sente dal padre ogni giorno, da quando comincia a giocare subito dopo pranzo fino a quando è troppo buio per continuare a giocare. E’ così che quello che è un meraviglioso gioco si trasforma in una prigione, fatta di quattro linee bianche e di una rete, da cui Andre non potrà mai fuggire, ed è così che il gioco, per Andre, diventa tortura.
“Sussurro sottovoce: lascia perdere, Andre, arrenditi. Posa la racchetta ed esci immediatamente da questo campo (…) Non ti sembra bello? Non sarebbe magnifico, Andre? Semplicemente lasciar perdere? Non giocare mai più? Ma non posso.”
Il piccolo Andre viene spinto al limite della sopportazione umana, sia fisicamente che psicologicamente, gli viene negata la semplice normalità concessa ai suoi coetanei in nome di un ambizioso obiettivo da raggiungere, o di un’ossessione, come abbiamo gia visto. Ma persino il padre sa che non può insegnargli abbastanza per renderlo il numero uno al mondo, non può dargli gli strumenti per raggiungere l’Olimpo del tennis. Così Andre, che acconsenta o meno, è destinato a fare la valigie per traferirsi in Florida, alla Bollettieri Academy, fondata dall’allenatore Nick Bollettieri. L’insofferenza di Andre cresce a dismisura, trasformandosi in trasgressione, ribellione ostinazione. In Florida matura un carattere insofferente, fragile e forse insicuro, perchè nulla di ciò che fa si avvicina neanche lontanamente a ciò che si aspetta dalla vita. Ma non può fare altro, non ha voce in capitolo, l’arbitrio gli è stato estirpato in nome di un’ossessione paterna che non ammette variazioni al progetto iniziale. Andre dovrà diventare il numero uno.
Così Andre diventa un professionista, entra nel circuito ATP. Il suo talento e le sue doti sono indiscutibili, ma la sua mente frustrata dalle sofferenze patite continua a rallentare una crescita che dovrebbe essere esponenziale. La trasgressione e la ribellione continuano ad essere una costante nella vita di Andre, che per i primi anni della sua carriera si rifiuta categoricamente di prendere parte a Wimbledon, un po’ per l’insofferenza verso le regole che gli impongono la divisa rigorosamente bianca, ma molto più probabilemente perchè Wimbledon è la più celebre incarnazione di quel tennis che Andre tanto detesta. Eppure, quando deciderà di dare una svolta alla sua carriera, sarà proprio Wimbledon il primo slam che Andre riuscirà ad aggiudicarsi battendo Ivanisevic in finale. Agassi diventa un caso, spacca in due il grande tifo del tennis col suo stile stravagante e all’apparenza arrogante e per il continuo ed altalenante saliscendi che lo accompagnerà per tutta la sua carriera, proiettandolo al primo posto ATP e facendolo ricominciare dai tornei minori per salvare una carriera che sembrava giunta prematuramente al capolinea. Poi il divorzio, l’utilizzo di stupefanti, l’incrollabile ossessione per Sampras, eterno rivale, hanno contribuito a minare la fragile stabilità della sua psiche salvata soltanto dall’entourage di amici fedeli che lo accompagnerà per tutta la sua carriera e che alla fine, a conti fatti, lo renderà uno dei più grandi tennisti di tutti i tempi. Sessanta tornei vinti, un primo posto nel ranking raggiunto del 1995, tre coppe Davis, un oro olimpico, otto tornei dello slam, il quinto di sempre a vincerli tutti e quattro, gli scontri epici con Sampras che hanno regalato allo sport una delle rivalità più leggendarie della storia. Agassi è stato tutti questo, ma è stato anche instabilità, rabbia repressa, trasgressione, a tratti immaturità.
Ma ne è valsa davvero la pena? Cosa ha spinto Agassi a torturarsi fino a 35 anni col tennis da sempre odiato nonostante tutti i trofei accumulati e una schiena che non gli dava riposo? Probabilmente, un’ossessione.
“Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perchè non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi, non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto tra ciò che voglio e ciò che effettiva,mente faccio mi appare l’essenza della vita.”